CIE Ponte Galeria, la protesta shock si allarga

cordatesaHanno iniziato in quattro, poi se ne sono aggiunti altri cinque (marocchini e tunisini) e il numero è via via aumentato, fino a raggiungere e sforare la decina di unità che, da ieri sera con la bocca letteralmente e fisicamente cucita, rifiutano il cibo al CIE di Ponte Galeria. Laprotesta è per le condizioni disumanenelle quali versano questi luoghi che di fatto sono centri di detenzione, dove da mesi sono rinchiusi i migranti quando il fermo può essere per un massimo di 180 giorni.

La campagna “LasciateCIEantrare” che si occupa proprio del tema della detenzione in questi luoghi ameni, sinistramente somiglianti ai lagher nazisti, è riuscita con i parlamentari di SEL Filiberto Zaratti, Serena Pellegrino e Franco Bordo ad introdurre, spacciandolo come assistente diuno di loro, il giornalista de “l’Espresso”, Mattia Salvatore per documentare e rendere pubblica la cosa. E’ infatti difficilissimo che i media vengano lasciati entrare nei CIE, come nelle stesse carceri italiane, dove le condizioni di vita dei detenuti sono al limite se non oltre.

Gli attvisti della campagna “LasciateCIEntrare” fanno sapere le ragioni della protesta, “Quello che chiedono è la tutela della dignità umana, tempi di trattenimento o di espulsione più rapidi, assistenza legale e sanitaria. Diritti che sono sistematicamente violati. La campagna LasciateCIEntrare è entrata nel Cie di Ponte Galeria sabato sera con i parlamentari di SeL Pellegrino, Zaratti e Bordo. Domenica con il presidente del Pd Gianni Cuperlo”.

Il Garante per i detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, fa sapere che quattro immigrati sarebbero stati prelevati questa mattina dal Cie: due appartengono al gruppo della protesta (un tunisino e un marocchino), altri due invece non avrebbero la bocca cucita. Dopo la visita dei parlamentari di SEL, miracolosamente, le procedure per l’espulsione dei quattro avrebbero subito una improvvisa accelerazione e i quattro sarebbero sulla via del rimpatrio. Gli altri migranti che protestanto continuano a rifiutare il cibo, assumendo solo liquidi, e ogni contatto con i gestori del CIE.

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“Qui ci trattano come animali”
Visita al Cie di Ponte Galeria

“Qui è peggio del carcere. Scrivilo questo. Scrivilo”. Ventenne, magrebino, magro di corporatura. Le sue parole sono concitate. Gli occhi rabbiosi. Non è il solo ad avvicinarsi. In molti manifestano il desiderio di relazionarsi con l’esterno per denunciare la realtà che vivono. “E’ una vergogna, siamo rinchiusi in un lager e trattati come bestie”, dice un altro mostrandoci una stanza diroccata. I muri anneriti lasciano ancora tracce della protesta di febbraio scorso, quando scoppiò una vera e propria rivolta: molte camerate, come gesto di protesta, furono incendiate. Alla fine le forze dell’ordine intervennero per sedare il tumulto e arrestarono 15 persone.

Benvenuti nel Centro d’Identificazione ed Espulsione (Cie) di Ponte Galeria di Roma. Chi scrive l’ha ispezionato recentemente spacciandosi per assistente di una parlamentare. Per i giornalisti è infatti difficile ottenere il permesso per una visita. Come per le carceri: meglio non raccontare e far sapere pubblicamente la disumanità di tali luoghi.

Siamo a Parco Leonardo, all’estrema periferia della Capitale. Intorno il deserto. Vicino ad una caserma dei carabinieri sorge il Cie, uno dei 13 centri presenti sul territorio italiano. Può ospitare fino a 180 persone, è diviso in due bracci: femminile e maschile. La detenzione per i migranti può arrivare ad un massimo di 180 giorni, la media è 4-5 mesi. Al momento nel Cie sono rinchiusi 69 uomini e 36 donne.

L’ispezione inizia proprio dal braccio femminile. A guidare la visita una rappresentante della prefettura e alcuni operatori della Auxilium, la cooperativa che ha vinto l’appalto per la gestione del centro. Si supera una porta, poi un cancello. Poi ancora una seconda porta. Evadere è molto difficile: 13 militari e 15 uomini della questura si preoccupano di vigilanza e controllo. Ogni braccio è diviso in moduli ed ogni modulo composto da due stanze comunicanti e un bagno. La composizione delle camere è in base al criterio etnico, per evitare violenze e scontri tra loro. Le condizioni igieniche sono precarie pur non esistendo – come per le carceri – il problema del sovraffollamento. Alle 22 di sera si spongono le luci nella struttura: si impone di andare a dormire. Oltre alle stanze, ogni modulo, ha uno spazio esterno perimetrato da un alto cancello con spuntoni e filo spinato. Di fatto, una gabbia a cielo aperto. Le donne – quasi tutte provenienti dall’Africa Nera – passano il tempo davanti la televisione e a letto. Con loro non possono avere né forbicine né altri materiali pericolosi o contundenti. “Per paura che compiano gesti di autolesionismo” spiega un mediatore culturale, sette in totale nella struttura. Presente anche una psicologa.

Nel braccio femminile si può usufruire di visite specialistiche – sotto richiesta – ed esistono attività gestite da differenti associazioni e cooperative esterne. La Bee Free si occupa di intraprendere un percorso di genere con le recluse, il Centro Astalli lavora sulle richiedenti asilo, la comunità di Sant’Egidio e la Usmi, suore, danno conforto spirituale. “Possiamo chiudere qui la visita, se volete. Il braccio maschile è come quello femminile”, ci viene detto. Rifiutiamo e continuiamo la nostra ispezione.

E se la sezione donne aveva lasciato qualche perplessità, quella maschile lascia esterrefatti. Un carcere. Sporcizia ovunque. Stanze e bagni distrutti. Materassi a terra. Lenzuola di carta. Appena intravedono il bloc notes e la penna, si avvicinano. Gridano il loro malcontento. Chiedono di uscire.

Quasi l’80 per cento proviene dalle carceri dove ha già scontato la pena per il reato commesso. “Dopo la galera – sbraita un altro magrebino (la netta maggioranza) in perfetto italiano – ero convinto di godermi la libertà e invece sono finito nuovamente in cella. Sono tre mesi che sono qui e non so niente del mio futuro”. Abbandonati a se stessi.

Nell’aria si respira un clima di immensa insofferenza. Intere giornate di reclusione senza nessuna attività di carattere culturale o socio-lavorativa. La loro rabbia si manifesta con gesti autolesionistici (come il caso attuale delle dieci bocche cucite) e sugli oggetti. “Fatichiamo a gestirli e a coinvolgerli in qualsiasi impegno” spiega una responsabile della cooperativa Auxilium, costretta ad ammettere la differenza tra i due bracci: “Le donne sono coinvolte in progetti, con gli uomini non ci riusciamo. Anche l’ora di sport diventa un momento per risse e tensioni”. Per sedare gli animi, e non solo, c’è una grande diffusione di psicofarmaci all’interno della struttura. Qualcuno è tossicodipendente. Altri si avvicinano dicendo di essere richiedenti asilo. Vogliono sapere, ignari di tutto, a che punto sia la propria pratica. Vicino ai moduli una piccola cappella e una moschea per pregare. Molto affollata.

“Non ci rimane che pregare in Dio e sperare” sussurra un latinamericano sull’uscio della chiesetta. Intanto un nigeriano ci invita a far vedere la perdita d’acqua e l’enorme macchia di muffa che rende l’aria irrespirabile nella sua stanza. “Fate qualcosa per noi” le ultime parole ascoltate prima che la porta si chiuda dietro di noi. Sboom. Ispezione terminata. Alla fine si discute di introdurre l’identificazione direttamente in carcere ma forse il problema è più complesso e riguarda la natura stessa dei centri. “E’ l’Inferno, vogliamo la libertà”, ci dicevano. Benvenuti nel Cie di Ponte Galeria.

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