Amnistia e indulto, le carceri restano un inferno

cordatesaCon il provvedimento del governo Prodi del 2006, la popolazione carceraria si dimezzò. Ma durò poco. Oggi abbiamo superato la soglia dei 65mila detenuti, che vivono in condizioni critiche; le guardie carcerarie sono poche e mal pagate. Gli istituti scoppiano. Ma ripartiamo da lì, senza mettere mano a quel che non va nel sistema

Un film già visto. Un film destinato a ripetersi come un sequel. Carceri stracolme, amnistia e, dopo pochi mesi, tutto come prima. Basta tornare indietro di pochi anni. Correva l’anno 2006. Oltre 36 mila carcerati riabbracciavano la libertà grazia all’indulto del governo Prodi. La popolazione carceraria si dimezzò, le celle tornarono a svuotarsi, i carcerati smisero di vivere in 3 metri quadrati, ammassati fra degrado, puzzo e sporcizia. Ma quanto durò? Un anno.

Dopo un solo anno l’effetto svuotacarceri si esaurì. Ricominciò il solito trend. E nel 2011, le galere erano peggio di prima. Sul punto di esplodere, dopo avere superato la soglia – considerata critica – di 60 mila detenuti. Una bomba a orologeria. Fra suicidi, malattie, condizioni ai limiti dell’umano, carenza di fondi, carenza di spazi, pochi progetti di rieducazione. Un incubo che l’Europa ha sanzionato. Un incubo che riguarda i carcerati ma anche gli agenti di polizia penitenziaria. Troppo pochi. Poco pagati. E costretti a ritmi di lavoro enormi.

Eppure l’Italia riparte da lì. A distanza di altri due anni, quando ormai le celle esplodono, superando i 65 mila detenuti, si riparte per l’ennesima volta da amnistia e indulto. Fra polemiche politiche, divisioni a destra e a sinistra, appelli del Capo dello Stato, accelerazioni e frenate.

Il problema è che, come sempre è avvenuto, svuotare le carceri con provvedimenti di grazia è solo un provvedimento tampone. All’emergenza si risponde con misure di urgenza. Poi tutto resta come prima. Anzi, nel silenzio della politica, le poche cose che basterebbe fare per invertire la tendenza che sta trasformando le prigioni italiane in discariche sociali, non vengono mai messe all’ordine del giorno: le comunità terapeutiche che potrebbero ospitare migliaia di detenuti per la Fini-Giovanardi (detenzione e piccolo spaccio) sono sottofinanziate; si continua a stipare in celle sempre più piene decine di migliaia di persone che non sono ancora state processate; si utilizza la carcerazione preventiva più che nel resto d’Europa; si mandano in carcere tossicodipendenti ed extracomunitari, sulla base di leggi ideologiche, che non hanno in questi anni risolto alcun problema.

Ecco perché il ministero della Giustizia da un anno sta lavorando a un progetto per svuotare le carceri italiane. Linee guida al vaglio del ministro Anna Maria Cancellieri, che intendono partire dalla depenalizzazione di alcuni reati minori. Primo punto del piano del pool di esperti di via Arenula e della commissione incaricata di studiare una via d’uscita dall’emergenza.

Meno penale più sociale
Quello che tutti sanno, ma la politica fatica ad accettare è che ci sono leggi sbagliate, che mandano in carcere persone che non dovrebbero trovarsi lì. Ed è per questo che la depenalizzazione dei reati che creano meno allarme sociale è allo studio della squadra del ministero della Giustizia. Con l’ipotesi che gli interventi tocchino anche la legge Fini-Giovanardi, da tempo sul banco degli imputati del sovraffollamento strutturale delle carceri italiane.

Basta leggere qualche dato. Nei penitenziari italiani più di un terzo dei detenuti(25.076) è dentro per la violazione del testo unico sugli stupefacenti, modificato nel 2006 dai ministri del secondo governo Berlusconi. Lo stesso che ha varato un’altra legge “riempi carceri”: il testo sull’immigrazione firmato da Umberto Bossi e Gianfranco Fini. Gli stranieri rappresentano il 36 per cento degli oltre 65.800 detenuti. Il 2,9 per cento, secondo i dati Istat del 2011, è dentro per violazione della legge sull’immigrazione. Ci sono i trafficanti e gli scafisti, certo. Ma anche chi non ha rispettato l’ordine di espulsione. Molti di questi infatti vivono in Italia da anni. Da regolari sono diventati irregolari. Licenziati dalle aziende in crisi, dopo sei mesi senza contratto(così prevede la la legge) i documenti non vengono rinnovati. E per lo Stato diventano clandestini.

Degli oltre 25mila reclusi per droga, ci sono ben 18.753 che hanno violato l’articolo 73, cioè piccoli spacciatori e consumatori beccati con quantità al dì sopra di quella ritenuta per uso personale. Di questi 3.278 sono in attesa di giudizio e 12.131 condannati in via definitiva. Le persone rinchiuse per il reato più grave, l’articolo 74 che punisce le grandi organizzazione che trafficano droghe, sono appena 843, 180 aspettano di essere giudicate. Sono i dati più recenti- aggiornati a ottobre- del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che l’Espresso è in grado di anticipare. Ma nella storia della nostra Repubblica fatta la depenalizzazione si è provveduto subito a rimpolpare il codice di nuovi reati: dal 1999 a febbraio 2012 sono state introdotti nel nostro ordinamento circa 310 reati, 23 all’anno. Reati che intasano procure e tribunali, sommersi da fascicoli destinati il più delle volte all’archiviazione. Reati che in qualunque paese europeo sono considerati illeciti amministrativi e che, in Italia, rischiano invece di portare altra gente in carcere. Magari per poche ore.

Svuota carceri
Anche quando le leggi ci sono, spesso in Italia è difficili o impossibile applicarle. Prendiamo il caso delle pene alternative, previste e regolate, ma sottofinanziate. Tanto che il secondo punto del piano del ministero è proprio applicare in pieno il decreto “svuota carceri”: limitazioni agli arresti preventivi; potenziamento delle misure alternative al carcere che potranno essere applicate anche ai recidivi tossicodipendenti o legati a contesti di marginalità sociale; maggiore utilizzo dei lavori di utilità sociale; sgravi fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti o ex detenuti.

I dati sulle pene alternative parlano chiaro. Il picco (23.394) è stato raggiunto tra il 2005 l’inizio e del 2006. Prima dell’introduzione della Fini-Giovanardi. A maggio 2013 invece, dopo 5 anni in cui il numero di casi ha oscillato dai 5 mila del 2007 ai 19 mila dello scorso anno, le misure alternative concesse sono state 22.244. In larga parte arresti domiciliari. Il problema si pone soprattutto per i tossicodipendenti (più di 15mila) e i consumatori finiti dentro con l’accusa di spaccio. Tra questi la percentuale di stranieri è in costante aumento. La maggior parte di loro non ha alternative alle galere. Sono soli. E non hanno una rete familiare che garantisce per loro o un domicilio preciso. Il dipartimento che amministra i penitenziari lo denuncia da diversi anni. Lo scrive anche nell’ultima relazione inviata al Parlamento: «Il numero di tossicodipendenti in affidamento definitivo o provvisorio continua a essere assai modesto».

Le motivazioni? Si va da questioni burocratiche spicciole a questioni ben più serie come le difficoltà economiche per le Regioni che con i pochi soldi a disposizione per la Sanità non riescono a pagare le comunità terapeutiche. Che a loro volta non hanno risorse per accogliere chi chiede le misure alternative. Un detenuto ristretto in comunità costerebbe molto meno allo Stato. La retta giornaliera oscilla dai 27 euro ai 50 euro al giorno. Un bel risparmio rispetto ai 116 euro che spendono ogni giorno gli istituti di pena. Eppure molte strutture d’accoglienza soffrono i tagli. Vivono alla giornata. Non riescono a pagare i dipendenti.

I tagli lineari al sociale e alla sanità hanno messo in crisi il sistema delle alternative al carcere. Per esempio nel 2012 la Regione Emilia Romagna ha ricevuto dal governo centrale 7milioni di euro destinati al fondo sociale. Nel 2008 la cifra era dieci volte superiore. Una situazione diffusa in tutte le regioni d’Italia. Nel suo ultimo rapporto al Parlamento il dipartimento delle politiche antidroga segnala una diminuzione del 21 per cento dei finanziamenti destinati a progetti di reinserimento sociale degli ex tossicodipendenti detenuti. E le cronache sono piene di denunce da parte dei direttori delle comunità che lamentano mancanze di risorse. A Bronte, in provincia di Catania, un condananto per droga a cui la Corte d’Appello aveva concesso i domiciliari in una struttura protetta è stato costretto a tornare in carcere. Il Comune non era in grado di sostenere la spesa.

Dati che mostrano una verità difficile da ribaltare. Anche da chi sostiene che, al contrario, il problema del sovraffollamento vada risolto aumentando i posti nelle carceri. La strategia del ministro Cancellieri prevede anche questo aspetto. Sono già in cantiere l’inaugurazione di nuovi istituti e la ristrutturazione di altri. Due, quello di Sassari e Arghillà (RC), sono stati aperti e il terzo, a Cagliari, aprirà a breve. L’obiettivo è arrivare nel 2016 con 12 mila posti in più. Vuol dire passare dai 45.647 posti totali a 57.647. Da sola però questa misura non basterebbe a pareggiare gli oltre 65mila detenuti. All’appello mancherebbero comunque 8mila posti. E, cifre alla mano, è evidente che nemmeno questo basterebbe. E che il trend di crescita della popolazione carceraria negli ultimi anni riaprirebbe in poco tempo la questione. Con un nuovo allarme.

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