Corea del Nord: se questo è un uomo, nato in catene

CINA_(s)_0917_-_Torture“Quando hanno impiccato mia madre e fucilato mio fratello ho pensato che se lo meritavano: avevano infranto le regole del campo meditando di fuggire”. Shin Dong Hyuk all’epoca aveva 14 anni, tutti passati dentro un recinto di filo spinato.
È l’unica persona nata nei campi di prigionia della Corea del Nord che sia mai riuscita a scappare. Internate da generazioni in questo inferno a cielo aperto da dove nessuno esce vivo ci sono almeno 200mila bambini, donne e uomini ridotti a degli automi, tenuti in bilico sulla soglia della morte per fame e sfinimento, fucilati per un nonnulla, torturati fino alla fine, violentati per il sollazzo delle guardie, privati persino del più elementare conforto della nostra comune umanità.
È sconvolgente la testimonianza di Shin, al centro del documentario “Camp 14. Total control zone”, vincitore del “Festival du film et forum international sur les droits humains” di Ginevra che si svolge in concomitanza con l’annuale Consiglio per i diritti umani dell’Onu, che sta infine pensando di aprire un’inchiesta per crimini contro l’umanità in Corea del Nord.
Sono settimane, queste, in cui la composta città svizzera risuona del racconto in prima persona degli abusi più atroci, per esempio lo stupro usato come arma dalle milizie stanziate nel l’Est della Repubblica democratica del Congo, dove il 23 per cento degli uomini e 30 per cento delle donne – bambine di due anni o ottuagenarie – sono stati violentati.
Ma il racconto di Shin toglie il sonno anche a chi pensava di avere già sentito tutto. “Il nostro unico scopo era seguire le regole del campo e morire. Non sapevamo nulla di ciò che c’era fuori. Sapevamo solo che i nostri genitori e i nostri nonni erano colpevoli, e che noi dovevamo lavorare duro per questo. Nessuno di noi aveva mai pensato che avremmo potuto lasciare il campo. Ogni tanto qualcuno fuggiva, spinto dalla paura di morire di fame o di essere picchiato, ma veniva subito catturato e giustiziato, divenendo oggetto dell’odio di chi aveva lasciato indietro”. Perché anche i parenti di chi cerca di scappare sono spesso torturati e uccisi, così come chi non avvisa subito le autorità se sospetta che qualcuno abbia intenzione di evadere o di infrangere il regolamento del campo.
Quando Shin vede che suo fratello ha lasciato la fabbrica di cemento prima del tempo sa bene che assentarsi dal lavoro è un errore punito con la morte. Osserva sua madre consegnargli del riso tenuto da parte: non gli resta che la fuga. Shin non perde tempo, va subito a denunciarli al suo insegnante. “Non ho pensato di fare finta di non avere visto – confessa in un primo momento – . Forse ero arrabbiato perché avevo così fame e mia madre non mi dava mai una razione in più. Ero solo un bambino”. Un bambino il cui primo ricordo, a quattro anni, è un’esecuzione, un bambino che ha visto picchiare a morte una sua compagna di classe perché aveva in tasca cinque chicchi di granturco forse rubati, che lavora da quando ha sei anni e mangia anche le ossa dei topi perché la sua razione di cibo è 300 grammi di mais al giorno e un cucchiaio di zuppa di cavolo. Non conosce altro: si è nutrito di questo per tutta la sua vita, a colazione, pranzo e cena.
Poi quello che è ormai un bel ragazzo di trent’anni dalle braccia deformate dal lavoro infantile e dalla tortura ci ripensa e aggiunge “Se non avessi denunciato mia madre e mio fratello probabilmente mio padre e io non saremmo sopravvissuti. Lo traduca questo”. Ma fare la spia non basta: il mattino dopo lo arrestano, lo torturano per otto mesi fino a quando per caso dice: “perché mi fate questo se ho denunciato i miei parenti?”.
Si scopre così che l’insegnante non aveva riportato la delazione. Shin viene trascinato in una cella dove c’è un vecchio carcerato che gli cura le ferite infettate e lo aiuta a non morire. “Era la prima volta che provavo un supporto emotivo. Non sapevo che gli uomini potessero aiutarsi a vicenda, che fossero degli animali sociali” racconta, con questa insolita espressione scientifica che avrà letto chissà dove cercando di capire la nuova emozione che era entrata nella sua vita. Poi lui e il padre, che a sua insaputa era nella stessa prigione, vengono rilasciati, per essere portati ad assistere all’esecuzione della madre e del fratello.
“Non ho provato nulla, il concetto di famiglia mi era estraneo. Non sapevo che si doveva piangere, tutto quello che avevo imparato è che si doveva obbedire alle regole del campo”, racconta Shin, la cui madre era stata data “in premio” al padre dalle guardie. Nel 2004 arriva un nuovo detenuto, nelle interminabili giornate di lavoro gli racconta che fuori dal campo c’è un mondo diverso.
Non è il desiderio di libertà che spinge Shin a fuggire, ma descrizioni della carne di pollo che lui non ha mai provato, e la brama di mangiare per una volta nella vita riso fino a sazietà. Un giorno i due vedono che non ci sono guardie e si lanciano verso la recinzione elettrificata. Il nuovo prigioniero muore fulminato, il suo corpo, riverso sul filo spinato, apre un varco. Passando sopra il cadavere, pur prendendo la scossa, Shin riesce a scappare. È il 2006. “Fuori ho visto la gente ridere e girare liberamente. Non potevo credere che quel mondo esistesse”.
“Quando sono arrivato in Corea del Sud i servizi segreti mi hanno interrogato, ma sapevano già tutto quel che avveniva nei campi”. Racconta ancora Shin, che dorme tuttora per terra in un disadorno appartamento di Seul. “Si finisce in questi campi per crimini politici, per esempio per non aver anteposto la parola “compagno” al nome del comandante militare supremo Kim Jong – un o per essersi arrotolati una sigaretta con il giornale del popolo senza rendersi conto che vi era contenuta una foto del presidente eterno” spiega uno degli altri due intervistati. Sono un ex – agente segreto Nord coreano e una ex guardia del Campo 22 che ora vivono a Seul e che confermano l’inaudita realtà dei campi, spiegando con volto impassibile di avere ucciso, torturato, stuprato “per il bene della nazione”. “Dovevo solo sorvegliare i prigionieri, se mi stufavo gli sparavo”, racconta.

Fonte: Il Sole 24 Ore

 


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