Samer Issawi continua sciopero fame in carcere

Prosegue la protesta del palestinese, detenuto in carcere a Gerusalemme e condannato da una Corte militare israeliana a scontare 20 anni di prigione.

palestinaE’ cominciato oggi il suo 167esimo giorno di sciopero della fame. E lo ha promesso: non smetterà finché non sarà liberato. Anche a costo di morire. Continua la battaglia di Samer al-Issawi, detenuto in carcere a Gerusalemme e condannato da una Corte militare israeliana a scontare 20 anni di prigione. La battaglia è anche quella dei suoi familiari, che da qualche settimana denunciano vessazioni e violenze da parte dell’esercito israeliano nei loro confronti. Una vendetta, dicono, perché Samer, dopo più di cinque mesi, ancora non cede.

I familiari insistono che l’arresto di al-Issawi, nel luglio scorso, è avvenuto in piena violazione degli accordi relativi allo scambio di prigionieri tra esercito israeliano e Hamas del 2011. Catturato nel 2001 durante la seconda Intifada e condannato a 30 anni di carcere per aver sparato contro i soldati di Tel Aviv davanti al suo villaggio di origine, al-Issawiya – incluso dalle autorità israeliane nella municipalità di Gerusalemme – Samer al-Issawi era stato liberato assieme a oltre un migliaio di palestinesi in cambio di Gilad Shalit.

Poco più di sei mesi dopo è stato arrestato nuovamente in una zona, a detta dell’esercito israeliano, “non appartenente al governatorato di Gerusalemme”, ovvero in Cisgiordania. Per aver violato i confini entro i quali avrebbe dovuto restare, è stato condannato a scontare i restanti 20 anni della pena condonatagli con lo scambio. Confini “labili, che cambiano continuamente a seconda dei decreti delle autorità israeliane” a detta del padre di Samer. Il tutto nella tristemente famosa “detenzione amministrativa”, pratica quasi standard per i prigionieri palestinesi: nessun capo d’accusa, nessuna difesa, nessun processo. Solo una sentenza della corte militare.

Il prigioniero, in condizioni critiche, non accenna a mollare lo sciopero della fame. Ha accettato da poco la somministrazione di vitamine e liquidi per via endovenosa dietro minaccia israeliana di iniettargli a forza del glucosio che, visto il suo stato di salute, probabilmente l’avrebbe ucciso. Una determinazione che, secondo sua sorella Shireen, spaventa Israele, memori dello sciopero della fame di massa avvenuto lo scorso anno, quando l’esempio di Khader Adnan e Hana Shalabi portò più di duemila detenuti palestinesi a rifiutare il cibo per 66 giorni, costringendo le autorità carcerarie israeliane a concedere un miglioramento delle condizioni dei prigionieri e trascinando le carceri dell'”unica democrazia del Medio Oriente” sotto i riflettori della comunità internazionale.

La famiglia al-Issawi denuncia una serie di violenze subite nelle ultime settimane. Più precisamente dal giorno in è stato diffuso in rete un video che mostra sette soldati israeliani picchiare selvaggiamente Samer – in sciopero della fame da oltre 150 giorni e su una sedia a rotelle – nell’aula della Corte dei Magistrati di Gerusalemme sotto gli occhi impassibili di un giudice. Per aver tentato di salutare sua madre prendendole le mani. Da allora, sua sorella Shireen è stata arrestata nella sua casa e tenuta 24 ore in carcere per “attività sovversiva”, ossia l’organizzazione di manifestazioni, in Palestina e fuori, per sostenere il fratello e la sua battaglia. E la sua licenza di avvocato è stata sospesa per sei mesi.

La tenda piantata all’ingresso del villaggio, un luogo di discussione e un simbolo del sostegno a Samer da parte degli abitanti del suo villaggio, è stata smantellata dall’esercito più volte. Il primo gennaio la casa del fratello Ra’fat è stata demolita. E qualche giorno fa i soldati israeliani hanno tolto l’acqua alla casa della famiglia al-Issawi, presentando un fantomatico conto di 50.000 dollari – decine di anni di uso quotidiano, dollaro più dollaro meno – per gli arretrati. Nonostante le bollette regolarmente pagate. “Questa – ha dichiarato Shireen – è la loro vendetta contro la nostra famiglia”.

Secondo l’organizzazione Addameer, che si occupa del supporto e dei diritti umani dei prigionieri, circa il 40% della popolazione palestinese maschile è passata per le carceri israeliane a un certo punto della propria vita. Spesso senza capi d’accusa né processo.

di Giorgia Grifoni


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